“War” degli U2 analizza il concetto di guerra andando alla radice, ne cerca i significati più nascosti, i caratteri nascosti anche nella piccola quotidianità. Il titolo stesso è un monito, tre sole lettere, che dominano in rosso, a caratteri cubitali, la copertina e suonano come un urlo disperato.
In copertina il volto inquietante di Peter Rowen. La posizione, le mani dietro la nuca, il volto imberbe, l’innocenza perduta per sempre, gli occhi mostrano uno sguardo d’accusa, le labbra lasciano intravedere una scia di sangue.
Pochi album hanno la capacità di scaraventarti con irruenza all’interno del loro sound come i primi secondi del brano di apertura, la celeberrima Sunday Bloody Sunday: la canzone esplode con una batteria simile a un tamburino militare, capace di squarciare un silenzio assordante durato anni, capace di distruggere un intero popolo.
Gli stessi U2 erano consapevoli della difficoltà che avrebbero corso parlando della questione irlandese: la “sanguinosa domenica” si riferisce infatti all’attentato terroristico perpetrato proprio una domenica a Enniskillen, nell’Irlanda del Nord, in cui furono uccisi undici civili.
Non gli interessava addossare la colpa a un movimento, Bono voleva esprimere le sensazioni e tirare fuori la rabbia di un’intera nazione stanca di quei continui versamenti di sangue. Più volte lo stesso cantante ha ribadito che “questa non è una canzone di rivolta” (andate a riascoltare a titolo esemplificativo il successivo album live “Under a Blood Red Sky” che presenta una versione dal vivo molto aggressiva che è rimasta negli annali).
Il risultato finale fece di Sunday Bloody Sunday una pietra miliare della discografia della band di Dublino, tanto che in un primo momento rischiò di ingabbiarli in una immagine rigida, per molti anni infatti gli U2 furono soli “quelli di Sunday Bloody Sunday”